Uno sguardo sull’altro.
Chi è iscritto a questa newsletter da un po’ sa che io sono una grande appassionata di cinema, non a caso ho scelto di dedicare una sezione al suo interno che si chiama proprio “Passaggi Cinematografici”. Scrivo spesso che per me cinema e psicologia sono parenti stretti, così scelgo di iniziare questa newsletter con le parole di un regista che io amo molto, Luca Guadagnino, che ha sempre uno sguardo sull’altro che a me puntualmente emoziona. Qui mentre parla dei personaggi del suo prossimo film “Bones and all” che uscirà tra qualche giorno:
“C’è qualcosa in coloro che vivono ai margini della società che mi attrae e mi emoziona. Amo questi personaggi. Il cuore del mio ultimo film batte teneramente e affettuosamente nei loro riguardi. Mi interessano i loro viaggi emotivi, voglio vedere dove si aprono le possibilità per loro, intrappolati come sono nell’impossibilità che si trovano di fronte. Il film è per me una riflessione su chi si è, e su come si possa superare ciò che si prova, specialmente se è qualcosa che non si riesce a controllare in sé stessi.
E da ultimo, ma non meno importante, quando saremo in grado di trovare noi stessi nello sguardo dell’altro?”
❤️
We love our job, o no? ha chiesto Federica Salto nella sua newsletter “La moda, il sabato mattina”.
Federica è una giornalista, senior fashion news editor di Vogue Italia, e sabato scorso in newsletter ha parlato di lavoro citando prima il quiet quitting e grand exit, poi ha riportato l’esperienza vissuta da parsone che lavorano nel suo stesso ambiente. “Dal post pandemia in poi, spesso mi sono trovata davanti persone, soprattutto nel mio settore, che mi hanno confidato di sentirsi esaurite, altri mi hanno detto di non riuscire a conciliare il “ritmo lockdown” (quello delle call, per intenderci) con il “ritmo pre-pandemia” (i viaggi di lavoro, gli appuntamenti, i pranzi)”, ha scritto. Pone poi una serie di domande al suo pubblico sulle loro modalità lavorative, sui ritmi e soddisfazioni. Come le ho scritto per email, quello che ha raccontato mi ha fatto pensare a un articolo del Time che vi invito davvero a leggere. È del 2020, poco prima della pandemia. Temo che non siamo ancora capaci a porre dei limiti, e che i ritmi, soprattutto in alcuni ambienti lavorativi, siano malsani. Siamo poi troppo abituati (educati?), per esempio, a scusarci se non rispondiamo subito (o quasi) alle mail/messaggi/audio/segnali di fumo. “Ciao, scusa eccomi ci sono” e magari ci siamo sentiti poco prima e non era una cosa urgente che richiedeva una risposta immediata…ma comunque siamo portati a chiedere scusa. Ci avete mai fatto caso? È una cosa su cui mi ero confrontata anche con Irene Forti, founder di Home Means Casa di cui vi ho parlato nell’ultima newsletter.
L’articolo del Time si apre con l’esperienza di Madalyn Parker, giovane web developer che si trova a lavorare in un ambiente che non è per lei, e la sua salute mentale, già delicata, ne risente e le sue performance anche. Decide di parlarne al suo superiore e dirgli come sta, come sta andando il suo lavoro (spoiler: male, lei sta malissimo tra ansia e burnout) e lui risponde: “I wonder who else feels like this”. Vengono riportate anche esperienze di altre persone che mi hanno fatta riflettere molto. Ripeto, l’articolo è del 2020 e titola Millenial Employess are getting companies to radically rethink worker’s mental health. Post-pandemia quante cose potremmo aggiungere sul tema?
“I wonder who else feels like this”.
Piccoli rituali che ci aiutano
Avete un rituale di benessere che per voi non è proprio negoziabile? Quei piccoli rituali che animano le nostre giornate come una passeggiata, bere il caffè rigorosamente nella tazza preferita, leggere qualche pagina di un libro e cose così? L’altro giorno leggevo questo articolo del New York Times e mi sono messa lì a pensare: cosa per me non è negoziabile? Quali rituali di benessere mi ritaglio ogni giorno per me-solo per me?
Se vi va di condividere i vostri rituali non negoziabili, vi aspetto in fondo nei commenti.
Passaggi Cinematografici
Allora, premessa. Il film che sto per citarvi è uscito tre anni fa e probabilmente lo avrete già visto in tanti ma, dato che l’ho riguardato di recente ed è un tripudio di tematiche psicologiche, non può non essere citato in questa sezione della newsletter.
Io in realtà non so da dove incominciare per raccontare quanto sia stupendo questo film, lui:
Per me, ha uno degli incipit più belli degli ultimi anni, mi spingo a dire questo. Noah Bambach ha scritto e diretto un gioiello, scavando dentro i sentimenti dei suoi personaggi con una delicatezza commovente. Il film venne presentato alla mostra del cinema di Venezia e io continuo a dirlo: sempre fidarsi della selezione di Venezia. Charlie e Nicole, i due protagonisti, sono interpretati da Scarlett Johansson e Adam Driver e, ça va sans dire, sono da brividi.
Charlie e Nicole si sono amati molto. Sulle note dei violini di Randy Newman in sottofondo lei elenca le cose che ama di lui, e anche lui fa lo stesso (l’ho detto, l’incipit è stupendo). Da questo amore nasce Henry. La famiglia sembra apparentemente unita e felice ma la realtà svela una distanza ormai incolmabile.
Noah Baumbach sceglie di raccontare un amore partendo dalle sue macerie, dalla rabbia, dalle incomprensioni. C’è una Laura Dern magistrale nei panni dell’avvocatessa divorzista, non a caso si è portata a casa l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il film ha ottenuto premi e ricevuto tantissime candidature, sei agli Oscar: io sono ancora qui a chiedermi come non l’abbiano potuto dare a Scarlett (Adam, quell’anno c’era Joker, era davvero impossibile che tu potessi vincerlo ma io comunque tifavo per te, lo rendo pubblico).
Nell’ultima scena c’è un’unica battuta, è una parola, la dice Charlie. Quel che resta del loro amore sta in sei lettere.
E’ su Netflix, cliccate play.