Strategie di comunicazione costruite grazie alla Psicologia ambientale: l'importanza dell'environmental communication
Intervista alla dott.ssa Irene Maltagliati, Coordinator University Center for Science & Society - Rudolf Agricola School for Sustainable Development presso l'Università di Groningen
In che modo la psicologia può aiutarci a capire e affrontare le sfide ambientali? Come possiamo motivare e consentire alle persone di agire in modo più sostenibile e adattarsi a un ambiente che cambia? A queste e altre domande prova a rispondere la psicologia ambientale, una branca della psicologia ancora poco conosciuta che chi è iscritto da un po’ a questa newsletter sa essere l’argomento di cui mi occupo di più qui e fuori da qui.
Le soluzioni tecnologiche non sono sempre sufficienti per risolvere i problemi ambientali, è necessario che avvenga anche un cambiamento dei nostri comportamenti e delle nostre abitudini; per questo serve una precisa attività di comunicazione che la psicologia ambientale può aiutare a costruire.
Uno dei centri di ricerca in psicologia ambientale più importanti in Europa e nel mondo è l’Università di Groningen in Olanda, qui lavorano un gruppo di psicologi e psicologhe esperti che indagano su quanto le persone siano disposte a dare un contributo personale alla causa della lotta al cambiamento climatico, e quali politiche possono incoraggiare efficacemente comportamenti sostenibili.
Per questa newsletter ho avuto il grande piacere di intervistare la dott.ssa Irene Maltagliati, dottoranda in comunicazione all’Università di Groningen e laureata in Health and Environmental Psychology, coordinatrice del University Center for Science & Society - Rudolf Agricola School for Sustainable Development.
Che cos’è la psicologia ambientale e come può aiutarci a comunicare nel modo più adeguato determinate tematiche come per esempio il cambiamento climatico? Ancora molto spesso, sui giornali o alla televisione, vengono utilizzati titoli sensazionalistici per raccontarlo.
La psicologia ambientale si occupa della relazione tra l’essere umano e l’ambiente. Da un lato, comprende una branca focalizzata sull’ambiente circostante, analizzando per esempio come elementi tipo decorazioni architettoniche e paesaggi naturali influenzano il nostro benessere. Un’altra branca - di cui mi occupo io -, si concentra sui problemi ambientali, esplorando come i nostri comportamenti contribuiscono a fenomeni come l’inquinamento e il cambiamento climatico, e come questi, a loro volta, abbiano ripercussioni su di noi.
Ci sono teorie che aiutano a spiegare quali meccanismi possono essere più o meno efficaci a motivare le persone ad agire verso un determinato comportamento ambientale. E spesso non è quello che intuitivamente pensiamo: per esempio, si crede che dare informazioni alle persone sui problemi ambientali sia sufficiente per farle cambiare comportamento. Ma non è così, fornire informazioni sul problema è uno step indispensabile, ma da solo non basta.
Un altro esempio sono i titoli sensazionalistici che spaventano. Possono funzionare in una prima fase, quando veniamo a conoscenza per la prima volta di un fatto nuovo che ci allarma; possiamo prestarvi attenzione, il problema è che poi l’effetto iniziale di sorpresa piano piano svanisce. Se alle persone non viene spiegato che soluzioni ci sono e cosa possono fare in pratica per cercare di contribuire a risolvere il problema, si trovano a un bivio: o continuare ad avere paura allarmati dai titoli, ma non è una cosa salutare, o ignorare il messaggio per il quieto vivere. Ecco perché bisogna stare attenti a continuare ad usare questi titoli che spaventano, soprattutto con i problemi ambientali.
Se, come sappiamo, essere informati non basta per farci agire in modo sostenibile, cosa serve per muoverci all’azione?
Alle persone bisogna comunicare come possono contribuire per risolvere il problema, questa parte di informazioni spesso manca, e cercare di non spaventare eccessivamente. Ultimamente si parla spesso di eco anxiety nelle nuove generazioni. Quando le persone si sentono ansiose, sopraffatte o hanno l’impressione di non poter fare nulla al riguardo, è improbabile che agiscano. La paura può condurre all’ansia, l’apatia o al rifiuto delle informazioni. Ecco perché la comunicazione è fondamentale: dobbiamo parlare del problema, ma allo stesso tempo proporre azioni concrete e offrire una prospettiva positiva. Come abbiamo detto, il solo essere informati non basta, serve quindi che sui media vengano date informazioni utili, indicare comportamenti precisi che si possono mettere in pratica facilmente: pochi per iniziare, ma scegliere quelli che danno più impatto. In Olanda, per esempio, ho visto spesso siti online specifici in cui si condividono trucchi e accorgimenti per risparmiare energia a casa ed essere più sostenibili; uno di questi è posizionare fogli di alluminio dietro ai termosifoni in modo tale che il calore non vada disperso. Sono cose semplici che tutti possiamo fare.
Dunque, invece di comunicare solo cose negative e di cui siamo già a conoscenza perché gli effetti del cambiamento climatico li conosciamo, comunichiamo anche quelle positive e concrete che possiamo fare.
Esattamente. Si crede che le persone non sappiano o non credano a quello che sta accadendo all’ambiente: quando vado nelle classi a lavorare con i ragazzi e domando Secondo voi quante persone in Europa non credono al cambiamento climatico? i numeri che riportano spaventano perché alcuni rispondono il 30% - 40% o addirittura il 60%; in realtà le statistiche ci dicono che la percentuale si aggira intorno al 4-6%. Le persone sanno cosa sta succedendo all’ambiente e che noi abbiamo una responsabilità, ma sui giornali, sui media, c’è quella che si chiama “over representation” di chi a questi temi non crede. Questo ci porta a sottovalutare enormemente quanto gli altri si preoccupino di questo tema e quanto stiano già facendo. Questa è una delle cose che la ricerca suggerisce di comunicare: non riportare solo i fatti negativi, ma mostrare anche quante persone si impegnano e come stanno cercando di fare del loro meglio per essere più sostenibili. Questo motiva più persone ad agire.
Come si costruiscono campagne di sensibilizzazione sui temi che riguardano la promozione del benessere, il minor consumo di carne per esempio, o il cambiamento climatico?
La prima cosa che deve fare la comunicazione è attirare l’attenzione. Il problema di alcune campagne è che sì, possono accendere la discussione su alcuni temi, ma poi finisce lì. Ci deve essere uno step successivo, dall’attenzione si deve passare a qualcosa di concreto che le persone possono mettere in pratica. E’ importante cercare di capire il target di riferimento e come agisce, le persone hanno diverse modalità di comunicazione anche a seconda dell’età ovviamente. A volte si costruiscono campagne e non si conoscono i motivi per cui le persone agiscono, o non agiscono, in un determinato modo; tu pensi sia per un motivo e invece è tutt’altro. Conoscere a chi ti stai rivolgendo è importante affinché la comunicazione funzioni. Una cosa da fare prima di iniziare una campagna è un test attraverso surveys o focus groups: magari non ci hai pensato ma quel messaggio non e’ appropriato per il tuo target, offende una certa categoria, o banalmente non funziona come sperato perché non è chiaro come credi.
So che all’Università di Groningen per incoraggiare il riciclo dei bicchieri usa e getta avete lavorato cambiando il loro design, dal colore alle scritte. Ce ne parla? Avete altri progetti di questo tipo per incrementare comportamenti sostenibili?
Abbiamo lavorato a questo progetto attraverso il ‘Green Office’, il dipartimento ambientale. Ci siamo basati su una ricerca di un gruppo di psicologhe ambientali qui all’Università di Groningen in cui ha confrontato il design di due bicchieri: uno standard e uno ispirato alla natura. L’obiettivo era capire se semplicemente cambiare il look del bicchiere potesse aiutare a incentivare il riciclo. I risultati hanno mostrato che il 59% delle persone che avevano ricevuto il caffè nel bicchiere con design ispirato alla natura erano state disposte a camminare più a lungo per raggiungere il cestino corretto per il riciclo, rispetto a solo il 28% di chi aveva utilizzato il bicchiere standard. Ispirandosi a questa ricerca, la nostra collega esperta in comunicazione ha cambiato il design dei bicchieri usati all’Università di Groningen. Abbiamo anche aggiunto una serie di frasi ispirati da altre ricerche, come “you can make the difference” o semplicemente un “thank you” con uno smile. Abbiamo poi scritto che la nostra università sceglie caffè sostenibile per mostrare che anche l’istituzione stessa si impegna per l’ambiente. In realtà ora in Olanda c’è un nuovo regolamento che limita l’usa e getta, quindi ogni studente ora si porta la propria tazza dietro.
Su cosa si sta concentrando il suo lavoro di ricerca in questo momento?
In nostro gruppo di ricerca sta lavorando a un progetto sulle microplastiche, abbracciando un approccio rivolto sia all’ambiente che alla salute. Le microplastiche sono un problema non solo per la natura, ma anche per noi stessi: sempre più studi mostrano che ogni giorno mangiamo e respiriamo microplastiche. Stiamo cercando di capire quanto la popolazione olandese sia al corrente di questo problema e quali sono i fattori psicologici che possono portare a un cambiamento dell’uso che facciamo della plastica. Vogliamo affrontare questo tema in particolare con le giovani generazioni. Per questo stiamo sviluppando un gioco interattivo da portare nelle scuole, con l’obiettivo di avvicinare gli studenti all’argomento in modo un po’ più leggero e coinvolgente, evitando di sopraffarli immediatamente con una discussione sull’ennesimo disastro ambientale.
(Photo credit: Francine Nijp, Green Office, Università di Groningen)