Mostrarsi vulnerabili
Intervista a Biancamaria Cavallini, psicologa del lavoro e direttrice scientifica di Mindwork
“Il fatto che sul lavoro la vulnerabilità sia un tabù non le impedisce però di emergere”.
Lo scrive Biancamaria Cavallini a pag. 40 nel suo libro “Vulnerabilità” - Voci del lavoro nuovo edito Franco Angeli. Biancamaria è una psicologa del lavoro e direttrice scientifica di Mindwork, società che offre servizi di supporto psicologico alle aziende. Oggi il benessere psicologico è molto più normalizzato anche al lavoro, abbiamo sconfitto un primo strato di stigma, come mi ha detto Bianca, ma ce n’è ancora un po’ radicato che si manifesta - banalmente - nel fatto che pensiamo che la salute mentale sia meno dignitosa della salute fisica.
Secondo i dati 2024 dell’Osservatorio Mindwork - BVA Doxa sul benessere psicologico nelle aziende italiane, solo 1 persona su 5 si sente libera di parlare apertamente del proprio malessere psicologico nel proprio luogo di lavoro.
Ha scritto di vulnerabilità, e ho pensato che questa parola meritasse uno spazio anche qui in newsletter. Le ho chiesto quindi se avesse avuto desiderio di raccontarci un po’ cosa significa essere vulnerabili, soprattutto in un contesto come quello lavorativo. Ha risposto di sì e di questo la ringrazio molto.
Bianca, spesso la vulnerabilità la si confonde con fragilità o debolezza ma non sono sinonimi, ci spieghi la differenza?
Se la si cerca sul vocabolario tra i sinonimi associati si trovano fragilità e debolezza, e questo restituisce bene come siamo sempre stati abituati a pensare alla vulnerabilità. Se però andiamo oltre questa definizione e prendiamo per esempio quella che dà Brené Brown, una ricercatrice statunitense, scopriamo che è la capacità di fronteggiare rischio e incertezza e aprirsi emotivamente. Da questa definizione iniziamo a intuire che forse vulnerabilità non è fragilità, quanto piuttosto forza: in nessuno scenario possibile noi associamo la capacità di fronteggiare l’incertezza e il rischio alla debolezza anzi, è di solito una persona coraggiosa che le affronta. Quando noi ci esponiamo a rischi e incertezza, mostriamo un po’ il fianco, ci mostriamo disarmati e quindi dobbiamo essere particolarmente coraggiosi per farlo.
“Per quanto non abbiano nulla di naturale”, è così che descrivi i luoghi di lavoro nel tuo libro.
I luoghi di lavoro sono molto vulnerabili perché le persone sono vulnerabili, per definizione, e sono luoghi dove la vulnerabilità è negata. Nonostante ci passiamo la maggior parte del nostro tempo, spesso vengono negate tutte quelle caratteristiche che ci rendono umani. Dunque da qui la provocazione che le aziende siano poco “naturali” perché non seguono l’inclinazione naturale dell’ essere umano. Oltre al fatto che sono costrutti e che le componiamo noi.
Cosa vuol dire portare la propria vulnerabilità al lavoro?
Può voler dire tante cose: esporsi raccontando un proprio errore, un fallimento, può voler dire sfidare lo status quo, alzare la mano e dire che non si sta bene. In generale tutti quei comportamenti che soggettivamente aprono alla vulnerabilità, perché ciò che è vulnerabile per me non lo è per te. E’ tutto ciò che preferiremmo tenere per noi e taciuto all’interno dei contesti di lavoro perché ha a che fare con l’incertezza; è tutto ciò che ci genera un po’ di preoccupazione e ansia perché non sappiamo come potrà essere interpretato.
E abbiamo paura del giudizio.
Assolutamente sì. E’ una delle grandi resistenze a mostrarsi vulnerabili: la paura del rifiuto, del giudizio, la vergogna. Paura di disattendere l’idea che le altre persone si sono fatte di noi, e mostrare lati di noi di cui noi in primis ci vergogniamo.
In un mondo dominato dalla spinta alla performance e ai risultati, le persone spesso temono che mostrarsi vulnerabili possa avere conseguenze negative sulla carriera.
C’è una sorta di paradosso. La vulnerabilità richiede un certo strato di fiducia per potersi esprimere. Se funziona, e dall’altra parte ci sono persone pronte ad accogliere la mia vulnerabilità, si innesca subito la fiducia. Se invece nessuno fa questi atti, che io chiamo di coraggio, e la fiducia alla base non c’è, nessuno esprimerà la propria vulnerabilità. Quando si fanno atti di coraggio in azienda, per esempio, sono proprio quelle persone che poi vengono prese molto come esempio, verso le quali si prova molta gratitudine perché hanno un po’ spianato la strada e mostrare la propria vulnerabilità diventa quindi possibile.
Come può trasformarsi in una risorsa preziosa?
Io credo addirittura che la vulnerabilità possa essere uno strumento dell’oggi. Viviamo in un mondo assolutamente incerto e dove il rischio è molto più presente dal punto di vista economico, sociologico, politico. Se noi riusciamo a connetterci con la nostra vulnerabilità, siamo molto più in grado di gestire proprio quell’incertezza e quel rischio perché li addomestichiamo, diventano familiari. Le persone che riescono a esporsi, e sono molto in contatto con la propria vulnerabilità, sono persone che tollerano in qualche modo bene il carico emotivo che incertezza e rischio possono portare. Oltre al fatto che la vulnerabilità è associata alla possibilità, come abbiamo detto prima, di sfidare lo status quo. Tutto questo permette alle persone e alle aziende di crescere: se mi metto a nudo nelle relazioni ne costruisco di più sane e funzionali anche a lavoro, riportare i miei errori mi permette di crescere e magari far crescere gli altri. Diventa quindi un circolo virtuoso.
Quali possono essere delle buone prassi per aiutarci in questo?
Le aziende non sono luoghi dove la vulnerabilità è normalizzata, va dunque misurata. La vulnerabilità senza limiti, come dice Brené Brown, non è vulnerabilità. Io devo calibrare il mio mostrarmi vulnerabile, devo contestualizzare perché altrimenti rischio di investire gli altri di un carico eccessivo e possono non essere pronti ad accoglierlo. Servono confini sani. Dichiarare prima che si sta per dire qualcosa che ci può rendere vulnerabili, già solo questo crea una sorta di setting che permette di preparare l’altro che mi ascolta ad accoglierla. Altrimenti rischiamo che sia una bomba a mano. E scegliere soprattutto il momento giusto, scegliere anche le persone giuste.