Il narcisismo e la sua narrazione sui social media
È quasi sempre declinata al maschile, erroneamente, e ridotta a segnali da cogliere per capire se chi ci sta di fronte soffre di questo disturbo. Ma la divulgazione, è un’altra cosa.
Il disturbo narcisistico di personalità è complesso da studiare, a causa della sua natura multiforme lo sforzo di definirlo con chiarezza ha messo a dura prova le menti di molti ricercatori competenti. A dirlo sono Glen O. Gabbard e Holly Crisp nel loro saggio “Il disagio del narcisismo” (Raffaello Cortina Editore). Molto spesso, soprattutto sui social media, vediamo invece contenuti in cui sembra sia molto facile riconoscerlo, addirittura si riduce tutto a cinque segnali per riuscire a farlo. Questa ovviamente non è divulgazione seria.
Come veniva raccontato il narcisismo prima che arrivassero i social media? Quando studiavo all’università TikTok non esisteva e Instagram era un social network dove pubblicare esclusivamente fotografie, era il 2011. Solo qualche anno dopo arriveranno le stories, le dirette e i professionisti della salute mentale a fare divulgazione sulla piattaforma. Instagram TikTok e Facebook hanno, in qualche modo, modificato e sicuramente ampliato la narrazione del disturbo narcisistico di personalità. Come sottolineano Gabbard e Crisp, senza dubbio alcuno internet ha apportato numerosi cambiamenti nelle nostre vite negli ultimi decenni ed, evidentemente, esiste una significativa differenza tra il narcisismo come si manifesta nei pazienti e il narcisismo come fenomeno culturale.
In questa newsletter parleremo di questo, e per farlo, ho chiesto il prezioso contributo della dott.ssa Valentina Tollardo psicologa e psicoterapeuta, Vicepresidente di Associazione Alice ETS che ringrazio per aver accettato la mia proposta.
“Se ne parlava poco, come di tutti gli argomenti che afferivano alla scena del benessere e alla salute psicologica. I disturbi di personalità erano molto più argomenti da studio e da università, da congresso. Se da una parte parlare di benessere psicologico e tematiche psicologiche ha aiutato molto a combattere lo stereotipo e costruire un’immagine non stigmatizzata del disturbo, ad un certo punto siamo caduti anche noi a parlarne generando più confusione. A me l’inizio di questo trend sui social mi sembra coincidere con l’inizio della problematizzazione delle relazioni disfunzionali (piace molto chiamarle tossiche) ed ecco spuntare il disturbo perfetto (sono ironica). Occorre considerare un aspetto: noi viviamo in una società narcisistica. Questo dato va considerato sempre. Sui social si parla del disturbo narcisistico di personalità facendo riferimento ai criteri diagnostici del DSM-V: lo evinco perché spesso i contenuti indicano le “sfaccettature” di fatica di questi pazienti. Grande risalto è stato dato quindi alla modalità relazionali. Sono stati trasformati nei cattivi da identificare con cinque red flag (i criteri diagnostici sono nove). Sono diventati quelli da disprezzare, quelli da non frequentare. Non ho mai visto un contenuto tra questi che li trattasse come persone sofferenti, fragilissime. I narcisisti, invece che persone con disturbo narcisistico di personalità. Stiamo facendo tanto per non stigmatizzare le condizioni cliniche e i funzionamenti: qui abbiamo semplicemente perso”.
Noi non siamo il nostro disturbo. La dott.ssa aggiunge anche un altro elemento: “Nei social si descrive la variante del disturbo narcisistico di personalità inconsapevole o overt, ma esiste anche un’altra variante che nessuno cita sui social: l’ipervigile o covert. Il narcisismo è un continuum che prevede anche la parte sana: è auspicabile avere una buona autostima, un buon focus sulle proprie esigenze personali e amor proprio”.
Ci dice anche un’altra cosa importante da sapere: “Le diagnosi non si fanno sui social media e possono porle solo le figure sanitarie quali psicologi e psichiatri, non altri”. Il tipico contenuto che vediamo sulle piattaforme in cui vengono descritti i segnali per riconoscere questo disturbo attira pubblico (purtroppo), ma è errato, molto pericoloso, acchiappa like - aggiungerei. La clinica è una materia delicata che va maneggiata con mestiere, l’utenza che frequenta le piattaforme potrebbe non avere gli strumenti necessari per cogliere che quei post sono altamente forvianti. Utenza che, lo ricordo, se lo ritiene può segnalare il contenuto all’Ordine degli Psicologi. Alcuni Ordini non hanno un vademecum che indichi con precisione agli psicologi e alle psicologhe come e cosa pubblicare nelle loro pagine social; sarebbe auspicabile che tutti parlassero la stessa lingua ma ancora non è così. Per ogni dubbio, però, i professionisti possono rivolgersi alla Commissione Deontologica del loro Ordine di riferimento per essere certi di non commettere errori.
“Dovremmo forse chiederci, rispetto a un contenuto, quale sia l’obiettivo, cosa aggiunge, cosa ci serve e qual é il senso e a come lo declino io. Ipotizziamo che una persona si riconosca nella descrizione, che impatto può avere per lei o per lui? Si può parlare di disturbi sui social ma a patto di aver dentro che per noi professionisti sanitari il focus deve essere la tutela della salute di tutti. Possiamo continuare a cercare il cattivo fuori e di chi è la colpa in una relazione: noi clinici sappiamo però che nella stanza, la domanda sarà sempre riportata sul soggetto di cura non sull’altro: “Ma lei quindi cosa mette in quella relazione?”, “Di cosa racconta la sua fatica?”.
Anche alle donne viene diagnosticato questo disturbo, ma la narrazione è sempre al maschile. Altro errore. Chiedo alla dottoressa perché secondo lei questo avvenga.
“Sì. Per quello che ho potuto osservare nel mio piccolo, sui social se ne parla quasi sempre al maschile. E’ uno stereotipo di genere e come per tutte le diagnosi e le fatiche, questo rende complesso l’accesso alla cura per la categoria esclusa. Un’eccezione che ho visto è per le madri: mi è capitato negli anni solo un contenuto sul disturbo narcisistico declinato al femminile ed era tipo “riconosci la madre narcisista”. Del resto ci mancava un altro stigma sul materno”.
La dott.ssa Valentina Tollardo ha una newsletter che si chiama “pensieri sospesi”, ci si può iscrivere qui.