Città a misura di benessere psicologico
Intervista alla professoressa Federica Biassoni, docente di psicologia ambientale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Abiteremo sempre di più nelle città. Entro il 2050 il 70 % della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane e questo provocherà senza dubbio problemi e sfide; determinante sarà il fatto che questi problemi dovranno essere affrontati nel contesto di una crescente preoccupazione a livello mondiale riguardante la crisi climatica. Cinquanta anni fa soltanto il 30% della popolazione mondiale abitava nelle città e il 70% nelle zone rurali. Oggi, in Italia, il 76% vive in città così come in Germania; in Francia, Spagna e Inghilterra sono oltre l’80%. Siamo diventati una “specie urbana” come direbbe Stefano Mancuso, lo indicano i numeri. L’uomo è l’essere vivente che più di ogni altro può modificare l’ambiente per adattarlo ai propri scopi.
Si sta parlando tantissimo di Smart City e Green City, di progetti di riqualificazione nature-based, si cita sempre la natura e la necessità di avere più alberi e spazi verdi; quello che non viene mai detto è questo, ed è ciò di cui si occupano gli psicologi:
L’ambiente in cui viviamo ci sottopone costantemente all’influenza di stimoli e sensazioni in grado di produrre effetti differenti sul nostro modo di agire: come progettiamo le nostre case, città, ambienti di lavoro, ha importanti ripercussioni sulla salute dell’uomo.
Oggi quindi parliamo di città e, soprattutto, di come la loro progettazione possa influire sul nostro benessere psicologico.
Lo facciamo insieme alla professoressa Federica Biassoni, docente di psicologia ambientale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, responsabile dell’unità di ricerca in psicologia del traffico e co-direttrice del servizio di valutazione, empowerment e diagnosi dei requisiti psicologici per la guida.
Professoressa che cos’è la psicologia ambientale e di che cosa si occupa?
È quella branca della psicologia che si occupa di indagare la relazione tra l’uomo e il suo ambiente, e poi, eventualmente, progettare interventi. Per ambiente intendiamo non solo quello fisico ma anche l’ambiente sociale, la comunità, le nostre case, i nostri ambienti di lavoro, il parco dove portiamo i bambini, la scuola, l’ospedale con tutto ciò che questo significa.
Gli ambienti che frequentiamo tutti i giorni possono influire sul nostro stato di benessere, o di malessere?
Assolutamente. Questo può essere confermato da tutta la ricerca.
Se tra questi ambienti citiamo le città, come dovremmo ripensarle oggi affinché siano a misura di benessere psicologico?
Mi viene da usare un termine che ora va molto di moda, lo userò non per questo ma perché ci credo ed è il termine inclusive. Città dove, per esempio, ci siano spazi per utenti di diverse fasce di età per ritrovarsi, spazi dove poter stare a contatto con l’ambiente naturale e dove ci sia accessibilità ai servizi e ai mezzi di trasporto. Se è vero che una componente del benessere è la padronanza ambientale e la possibilità di muoversi sentendosi padroni del proprio ambiente, è evidente che questa sia una caratteristica fondamentale se si vuole pensare a città in cui si stia bene.
Si sta parlando tantissimo dei cosiddetti “green space”, perché è così importante avere la natura nell’ambiente urbano?
Su questo secondo me c’è bisogno di fare ancora tanta ricerca, ci sono un paio di teorie che si rifanno agli anni ‘60 che hanno provato a spiegare gli effetti degli elementi naturali sul benessere che vanno aggiornate, integrate. Rimangono certamente validissime. Credo ci sia un po’ di ingenuità oggi nel pensare che la psicologia ambientale si occupi solo del “green” e della natura, è un tema molto attuale perché ci lancia verso il tema della sostenibilità e della protezione della natura. Io continuo a dirlo anche ai miei studenti: proviamo ad arricchirle queste teorie che provano a spiegare in che modo ci fa bene la natura, conosciamo gli effetti, ma non i meccanismi sottostanti: sappiamo che allevia lo stress, per esempio, ma in che modo? Siamo sicuri che ogni natura allevia lo stress? C’è ancora da capire tanto su questo.
Sul quotidiano inglese The Guardian è stato pubblicato un articolo che riporta i risultati di una ricerca dell’Università di Lille in Francia condotta grazia alla realtà virtuale, in cui si evince che immersi in un ambiente ricco di verde e con architetture dall’alto grado estetico, noi esploriamo di più ció che ci circonda e il nostro umore è più alto.
Ecco perché è riduttivo dire che la psicologia ambientale si occupa del rapporto con l’ambiente naturale, perché questo esempio ha a che fare con le caratteristiche dell’ambiente in senso molto più ampio e comprensivo.
Le città, sulla base di come le progettiamo, possono contribuire a farci stare meglio?
La risposta è sicuramente sì. La psicologia ambientale inizialmente si è interessata a molti altri aspetti che non al verde. Quando dico che le città possono aiutare a farmi stare meglio per come vengono progettate, non penso semplicemente a quanti spazi verdi ci sono ma in generale a come vengono progettate: la possibilità che io possa o meno esplorare con lo sguardo, come arriva la luce in base alle architetture circostanti, la presenza degli stressor ambientali. Tutte queste cose non c’entrano col verde, ma sono caratteristiche dell’ambiente che sappiamo impattare sul benessere delle persone. Per fare questo è necessario che gli urbanisti lavorino con chi è esperto del funzionamento umano, cioè gli psicologi.
Lo riportano diverse ricerche: nelle aree urbanizzate ci si sente più soli rispetto a quelle rurali, dove il senso di comunità è più presente. Abiteremo sempre di più nelle città, ma qui ci sentiamo soli. Non è un paradosso?
Vivere in città significa sì vivere in un posto dove magari ci sono milioni di persone, ma magari tutte chiuse ciascuna nella propria celletta. Il tema non è tanto la quantità di persone che abitano quel determinato luogo, ma il tipo di strutture e organizzazione degli ambienti e degli spazi e in che modo questo consente, oppure ostacola, l’incontro. Perché l’ambiente, è importante ribadirlo, è anche ambiente relazionale e culturale.
E gli spazi verdi possono aiutare in questo?
Certo, le ricerche dimostrano proprio di sì, soprattutto quando sono pensati a misura di una certa fascia di utenza. Possono aiutare sia perché sono spazi naturali sia perché sono spazi di aggregazione, ovvero spazi dove ci si può incontrare.
Se la psicologia ambientale è una branca della psicologia poco conosciuta, forse lo è ancora di meno la psicologia del traffico. Lei svolge ricerche anche in questo ambito, di che cosa si occupa?
Personalmente mi piace usare l’etichetta “psicologia della mobilità” o “psicologia dei trasporti” perché sarebbe una traduzione migliore dell’etichetta internazionale, e perché non hanno una connotazione negativa come è in italiano il termine “traffico”. Questa branca della psicologia si occupa del fattore umano all’interno di ogni sistema di mobilità: che noi siamo guidatori di un’auto, pedoni per strada, fruitori del trasporto pubblico, piloti o passeggeri di un aereo tutto questo attiene all’area di indagine e di intervento della psicologia della mobilità, che ha poi come obiettivi finali la sicurezza e il benessere delle persone.
Come lavora quindi uno psicologo della mobilità? Immagino insieme ad altre figure professionali
Sì, spesso lo psicologo del traffico lavora con altre figure come ingegneri, progettisti, urbanisti, insegnanti e istruttori di scuola guida, mobility manager etc. All’università Cattolica abbiamo un servizio che è una costola dell’unità di ricerca di cui sono responsabile che è aperto al territorio e si occupa di valutazione d’idoneità alla guida. La valutazione dei requisiti che una persona deve avere per guidare in sicurezza è un’applicazione molto specifica della psicologia dei trasporti, ed è un lavoro da psicologi perché richiede l’assessment e la diagnosi di un certo tipo di funzioni specificamente legate alla guida di un veicolo, non funzioni neuropsicologiche in generale.
Diciamolo dunque: seduti al tavolo dei lavori, per esempio di un Comune che deve progettare spazi destinati alla viabilità, dovrebbero esserci anche gli psicologi.
Sì sarebbe fantastico, purtroppo in Italia è come trovare l’unicorno. Io personalmente di spendo tantissimo per passare questo messaggio, questa possibilità.
Come ultima domanda le vorrei chiedere a cosa sta lavorando in questo momento nell’ambito della ricerca, ha un progetto che le va di raccontare?
Sì, stiamo lavorando con Autostrade per l’Italia per una ricerca su come incrementare la sicurezza dei cantieri stradali; in tema di psicologia ambientale pura, invece, sto portando avanti una linea di ricerca su come gli aspetti di legame affettivo con il territorio possono, o non possono essere, un fattore facilitante per i comportamenti pro-ambientali.
Ciao! La psicologia ambientale non mi era nota e la lettura è stata molto piacevole. Mi credo che i luoghi che abitiamo influenzino molto il nostro benessere psicofisico. Mi sto chiedendo quale sia il confine tra sensibilità personale e sociale, tra i luoghi che ci fanno stare bene e quelli che invece ci rendono più ostili. Interessanti spunti di riflessione, grazie!